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Torquato Tasso: la vita - Coggle Diagram
Torquato Tasso: la vita
Torquato Tasso nacque a Sorrento l’11 marzo 1544. Il padre,Bernardo, era gentiluomo di corte e poeta, autore di un poema cavalleresco, l’AMADIGI, che contemperava la materia romanzesca con le esigenze di unità imposte dalla cultura dell’epoca.
Il giovane Tasso nel 1557 si trasferì con lui alla corte dei della Rovere ad Urbino, dove venne a contatto con quell’ambiente cortigiano che era destinato a occupare un posto determinante nella sua esperienza successiva.
Nel 1559 seguì il padre a Venezia e lì, impegnata nel conflitto contro i Turchi , a soli quindici anni iniziò un poema epico sulla prima crociata, il Gerusalemme, lasciandolo però interrotto.
Nel 1560 passò a Padova per frequentare quella prestigiosa università, dove studiò dapprima il diritto, per dedicarsi poi alla filosofia e alla letteratura. A Padova, Tasso gettò le basi della sua cultura filosofica.
Nel 1562, a diciotto anni, scrisse un poema epico di argomento cavalleresco, il Rinaldo, e cominciò a comporre rime d’amore per Lucrezia Bendidio , una dama della duchessa Eleonora d’Este, e per Laura Peperara, conosciuta a Mantova.
Tasso aveva già esperienze di varie corti italiane, Urbino, Mantova, Ferrara. Oltre alla corte l’altro ambiente destinato a segnare la sua formazione fu quello dell’Accademia, che nel secolo Cinquecento divenne il centro per eccellenza dell’attività intellettuale: a Padova fu in rapporto con l’Accademia degli Infiammati, poi fu ammesso in quella degli Eterei.
Nel 1565 fu assunto al servizio del cardinale Luigi d’Este e si trasferì a Ferrara. La città gli apparve una “meravigliosa e non più veduta scena dipinta e luminosa, piena di mille forme e di mille apparenze”, e lo lasciò affascinato. In questa città il poeta trascorse gli anni più sereni e più fecondi dal punto di vista creativo.
Nel 1572 passò al servizio diretto del duca come gentiluomo stipendiato, senza incombenze precise: ebbe così l’aglio di dedicarsi interamente alla poesia.
La corte ferrarese, era stata particolarmente amante della letteratura cavalleresca: per questo probabilmente Tasso fu stimolato a lavorare al poema epico sulla crociata, che già aveva ripreso nel 1565. Vi attese dal 1570 al 1575, e nell’estate di quell’anno poté leggere il poema completo al duca Alfonso.
Nel frattempo, nel 1573 aveva composto un dramma pastorale, l’Aminta, e aveva anche tentata la tragedia con il Galeatro re di Norvegia, lasciato però interrotto.
Alla sua opera egli guardava con inquietudine e insoddisfazione, ed era tormentato dallo scrupolo di renderla perfettamente aderente ai canoni letterari e religiosi vigenti. Recatosi a Roma sul finire del 1575, sottopose il poema al giudizio di un gruppo di autorevoli letterari. Costoro mossero all’opera le critiche più meschinamente pedantesche e moralistiche: Tasso la difendeva appassionatamente, e si sentiva impegnato a intervenire sul suo poema con tagli e modifiche per renderlo conforme alle regole.
Fu salito da dubbi maniacali sulla propria ortodossia nella fede cattolica, e nel 1577 si sottopose spontaneamente all’inquisizione di Ferrara per fugare i propri dubbi; naturalmente fu assolto. A questi sintomi inquietanti si univano manie di persecuzione: un giorno ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello. Il duca lo fece rinchiudere nel convento di San Francesco, ma egli ne fuggì.
Giunto sino a Sorrento, si presentò alla sorella sotto mentite spoglie, annunciandole la propria morte per mettere alla prova il suo amore: anche questo è un comportamento indicativo di turbe psichiche, che rivela una profonda insicurezza e di un bisogno di essere amato. Dinanzi al dolore della sorella, il poeta svelò la propria identità e poté trascorrere con lei alcuni giorni sereni.
Tornó poi brevemente a Ferrara, ma presto riprese le sue peregrinazioni per l’Italia: nel 1578 fu a Mantova, poi Urbino, poi ancora a Torino presso Emanuele Filiberto di Savoia, sempre nella speranza di una sistemazione.
Tornò a Ferrara nel 1579, proprio mentre si celebravano le terze nozze del duca Alfonso con Margherita Gonzaga. Non trovando l’accoglienza calorosa che si aspettava, diede in escandescenza, tanto che il duca lo fece rinchiudere come pazzo furioso nell’ospedale di Sant’Anna, dove rimase ben sette anni, fino al 1586.
Dopo un periodo di totale segregazione gli fu concessa una relativa libertà. Poté così riprendere l’attività letteraria, e a Sant’Anna scrisse numerose rime, molte lettere e buona parte dei Dialoghi. Tuttavia dovette subire gravi sofferenze fisiche e psichiche: era turbato da incubi continui ad allucinazioni, era convinto che un folletto li mettesse in disordine le carte e che un mago lo perseguitasse con malighi incantesimi.
Alfonso, in urto con la Curia pontificia, che pretendeva che alla sua morte Ferrara tornasse alla Chiesa, voleva evitare che si proiettasse sulla sua corte un qualunque sospetto di eresia.
Negli anni in cui il poeta era rinchiusa Sant’Anna la Gerusalemme fu pubblicata senza il suo assenso, in un’edizione incompleta e scorretta, e questo lo turbò profondamente. Non solo ma, nonostante il grande successo di pubblico, il poema scatenò una violenta polemica tra i suoi sostenitori quelli che ritenevano superiore il furioso.
Il poeta ne fu amareggiati scrisse un’apologia della “Gerusalemme liberata”, dedicandosi nel contempo ad una revisione radicale dell’opera.
La prigionia ebbe termine nel 1586, quando il duca Vincenzo Gonzaga di Mantova ottenne che il poeta fosse affidato alla sua custodia. Nei suoi ultimi anni alternò soggiorni a Roma e a Napoli, ricercando soprattutto l’appoggio degli ambienti eclessiastici. In questo periodo compose molta poesia encomiastica, per celebrare i signori monaci che lo ospitavano, e molta poesia d’ispirazione religiosa, che riflette il bisogno di cercarne nella religione un conforto alle sue sofferenze.
Si concentrò anche sul rifacimento del poema, che ripubblico nel 1593 con il titolo di Gerusalemme conquistata. Nel 1594 il Papa Clemente VIII gli propose l’incoronazione poetica Roma; ma Tasso, malatosi gravemente e ritiratosi del convento di Sant’Onofrio sul Gianicolo, vi morì nell’aprile del 1595.
La sua vita si svolge interamente nell’ambito della corte, e ad essa é legata materialmente e intellettualmente: da un lato dal favore dei principi il poeta dipende totalmente per la sua esistenza materiale; dall’altro lato egli ritiene che solo nella corte possa essere consacrata la fama del grande poeta e che solo in essa si trovi il pubblico capace di intendere ed apprezzare la sua poesia.
Per Tasso non vi altro luogo in cui il poeta si possa realizzare se non la corte. Tuttavia Tasso è poeta lacerato da profonde contraddizioni: si celebra la corte e si protende verso di essa come verso un polo luminoso d’attrazione, dall’altro lato prova una segreta avversione, che si esprime nei suoi atteggiamenti di rivolta violenta, nelle sue fughe continue, nel suo irrequieto vagabondare da un centro all’altro, senza mai trovare un luogo in cui risiedere stabilmente.