La sfida dell’educatore artigiano consiste nell’aiutare la persona a dare un nome alle cose che gli accadono, alle sue emozioni, ai suoi sentimenti e alla sua stessa soggettività. Riconoscere l'umanità, saperla ascoltare, e non per forza interpretare, e dare ad essa valore. Vedere la storia della persona prima della sua classificazione significa costruire un paradigma educativo capace di restituire all'altro una complessità che, seppure destabilizza il potere tecnico di professionisti, restituisce alla persona un maggior potere di essere regista e narratore della sua storia futura.
L’educatore deve entrare all'interno di una professionalità artigianale e riflessiva, non specializzarsi tecnicamente attraverso la prevedibilità delle cause dei problemi e delle relative soluzioni. Significa non potersi appoggiare a protocolli e a comportamenti standard o a tecniche infallibili.
Si tratta di una professionalità intessuta di consapevolezza di sé, dell'altro e del contesto in cui la relazione è immersa. Una professionalità in grado di gestire la vulnerabilità e l'incertezza della relazione d'aiuto, sapendo aderire plasticamente ai contesti e alle storie delle varie umanità che incontra.
È professionalità che si deve mettere continuamente in discussione, ma è proprio questa leggerezza/debolezza che le permette di essere agente di valorizzazione delle competenze e delle esperienze dell’altro.
Non si tratta di non utilizzare dei metodi o delle tecniche nel proprio lavoro, è necessario però che questi rimangano uno strumento e non divengano invece la logica di riferimento che indirizza o la cultura professionale che scambia il mezzo con il fine, pur di non avventurarsi nella relazione tra umani che sono la vera sfida dell'educazione.