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((IL “GLOBAL FILM” COME MESSA IN SCENA, L’idea di cui l’ultimo capitolo…
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L’idea di cui l’ultimo capitolo del libro della Pravadelli tratta è che bisogna portare l’attenzione anche su un altro pasto di grande interesse della cultura contemporanea, ovvero l’importanza del processo geopolitico e ideologico della globalizzazione.
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L’idea non è quella degli studios Holliwoodiani degli anni ’30 con la semplice riuscita del cinema prodotto a livello globale con un suo pubblico, in quanto quello fa parte del global cinema industriale, ma bensì un tipo di produzione audiovisiva che vede una serie di prodotti che usano il modello della globalizzazione come strumento privilegiato di messa in scena, ovvero sono dei film o serie consapevoli dei processi di globalizzazione e li usano per sottolineare l’interconnessione delle soggettività nell’esperienza contemporanea.
Non si tratta semplicemente di quel cinema mainstream prodotto dalle multinazionali globali dell’intrattenimento, e indirizzato a tutti i tipi di pubblico.
Al contrario è una tendenza legata ai modi di rappresentazione e alle forme filmiche: si tratta di un tipo di film o prodotto audiovisivo che mette in scena il paradigma spaziale
della globalizzazione, che privilegia le relazioni tra elementi piuttosto che l’identità fissa di ciascun elemento. Quindi il mondo stesso è una rete interconnessa di soggettività e non si può stare al mondo senza riconoscere l’importanza di questa interconnessione fra soggetti, oltre alle simmetrie del potere in atto. Un esempio è la serie “Touch” (2012-13) in cui si ha una messa in scena che riconosce i rapporti di poteri in atto.
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Mobilità, circolazione, flusso e attraversamento (di capitali e beni, in modo più scopertamente
problematico di persone) sono i termini con cui si definisce l’esperienza della globalizzazione. Per esempio quella neutra dei film prodotti con i fondi europei e internazionali che richiedevano la
presenza di un tot di personalità e paesi, in quanto girato in inglese
La prospettiva transnazionale si preoccupa di portare l’attenzione a queste pratiche, ragionando su modelli comuni e sulla porosità dei confini nazionali, e prestando attenzione alle dinamiche postcoloniali e alle asimmetrie del potere in gioco.
Questa esistenza di problematiche vede la lingua internazionale come lingua dominante, quindi si ha un retaggio coloniale da un lato e neocoloniale da parte del predominio americano, quindi no n è assolutamente una scelta neutra parlare inglese, invece che altre lingue.
Un’espressione forte della prospettiva transnazionale è quella europea, intesa non solo come «Europudding» (film di coproduzione, finanziati spesso dai programmi dell’Unione
Europea, programmaticamente attenti a mescolare nazionalità e a usare inglese o francese come lingua «neutra») quanto come film che si confrontano con la molteplicità e la problematicità dei confini non solo politici.
Questa produzione si confronta in modo più produttivo con quello che è definito come attraversamento dei confini, in quanto si riflette sui confini nazionali e sul flusso con un’idea di mobilità sempre culturalmente connotata. Quindi questa realtà di confronto con il confine diviene specifica nel caso del world cinema.
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Quelli che vengono messi in scena sono i confronti fra modelli culturali anche molti diversi fra di loro. Questo confronto porta un’attenzione all’ibridazione.
Viene valorizzata la messa in scena di “spazi liminali”, in cui più rappresentazioni soggettive si confrontano a favore di una ibridazione culturalmente consapevole, spesso messa in scena attraverso spazi desertici o anonimi, prettamente simbolici.
Questo trionfa in BABEL, in quanto lo stesso film vede due divi di Hollywood e un divo Messicano. Quindi si ha il recupero di una dimensione autoscale e transnazionale globale come scena che vuole rifiutare l’adesione o contrapposizione a un’idea di norma a cui si oppone un’altro cinema. Si tratta di un processo «globale» in quanto «privo di centro», che rifiuta una contrapposizione binaria con una «norma» (Hollywood) a favore dell’idea di circolazione e ripensamento della storia.
Quindi il world cinema non è un cinema che si oppone alla realtà holliwoodiana o sovietica, ma bensì si cerca di trovare un’identità tra i due modelli dominanti degli anni ’60 (Hollywood e russo). Quindi ciò che viene valorizzato è un’idea di circolazione che spesso porta anche a un ripensamento dei modelli della soggettività.
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Babel racconta 4 realtà geografiche diverse: Stati Uniti, Messico, Marocco e Giappone. Inoltre è un film che lavora con l’anaconda: una narrazione che vuole una frammentazione del temp Mette in scena in modo consapevole la teoria della globalizzazione, dimostrando come sia impossibile rimanere fuori dalle sue dinamiche. o e distribuzione del tempo allo stesso momento (molto significativo in questo film).
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Nei primi minuti si hanno i due ragazzini in Marocco con in mano due fucili con i quali iniziano a sparare a un pullman. Quello che si vuole sottolineare è un grande uso della macchina a mano molto vicina ai due corpi con la trasformazione della messa a fuoco.
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voglia credere, non si ha uno spostamento e un’intervento
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mescolanza onirica problematica come in Blue Velvet o Mulholand Drive). Questo stacco identifica una comune umanità anche se sono due situazioni diverse.
L’altro elemento è la qualità diversa dell’immagine fra le due sequenze. Questo perché sono due formati diversi in quanto la parte del Marocco è girata in 16 mm e poi gonfiata (quindi immagine più sgranata - come in Carol - e meno satura ), mettendo in evidenza un collegamento; al contrario dell’altra che viene girata in 35 mm in quanto molto più definiti e più netti con un glamour dell’immagine.
- Le esperienze degli individui sono esplicitamente connesse in funzione globale: mostra come un evento locale abbia ripercussioni in moltissimi altri luoghi e soggettività, e come i media contribuiscano alla diffusione planetaria e all’interpretazione degli eventi secondo un posizionamento ideologico.
Questa contrapposizione è evidente nel deserto del Messico in quanto i due deserti (marocco e Messico) permettono una similarità con distanza, assumono momenti evocati in quanto un’immagine parla dell’altra anche se girati, messi in scena, con dinamiche di poteri diversi. Gli stati uniti sono comunque sempre Babel è che si parte da questi due ragazzini per andare poi a prendere riferimento sui due divi holliwoodiani.
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Quella che noi vediamo come prima sequenza, in realtà nell’ordine degli eventi avviene dopo; quindi si ha una redistribuzione dell’odine narrativo che riguarda anche la sequenza della tata messicana che deve andare al matrimonio della figlia e che viene lasciata con i bambini dai suoi datori di lavoro. Non si sa perché viene lasciata in questa situazione. Sentendo lei che si dispera, in quanto non vediamo poi il datore di lavoro, sentiamo che non potrebbe partecipare al matrimonio della figlia.
Quindi noi spettatori siamo posti al suo fianco e in qualche modo comprendiamo la sua scelta di portare i bambini al confine. Solo poi scopriremo il perché la tata viene lasciata in questo modo dai datori di lavoro e richiama di morire in Marocco.
La spettatorialità viene quindi posta dalla parte del Marocco, e di chi in qualche modo è potenzialmente pericoloso per la coppia statunitense, ma non lo fa per vari motivi. Quindi ci identifichiamo con i ragazzini che hanno sparato al pullman, una quanto tempo una punizione e non sanno di aver sparato in realtà a una persona; e ci identifichiamo con la tata che vuole partecipare al matrimonio della figlia.
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Prieto), quindi digitale in alta definizione dove le lenti fanno
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dell’inquadratura. L’idea è che un certo tipo di lente permette di inquadrare più spazio e dare un’ampiezza alla Tokio notturna che si assona al fatto che la protagonista non segna.
Quindi la visione diviene strumento privilegiato, non necessariamente chiara e basata sulla leggibilità ma basata su un senso di necessità di abbracciare lo spazio determinato dalla protagonista sorda (esperienza di spazio diverso dagli udenti).
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Si ha un senso di complessa relazione fra soggettività del personaggio basata sulla difficoltà di stare al mondo, in quanto si ha la perdita della madre. Quindi si ha il rapporto con un mondo in cui lei tenta di entrare, visibile nella scena in cui il padre la trova nuda sul balcone intenzionata a suicidarsi a sua volta.
Si ha un movimento indietro della mdp che valorizza il posizionamento del soggetto nello spaio rendendo via via sempre più piccolo (si allontana dal balcone) e sempre più parte di un complesso, quindi persi in questo mare di possibilità, intreccio e soggettività che questo racconto porta avanti.
Si ha una dimensione dell’esperienza basata su una poeticità estrema in quanto poi illumina tutte le finestre illuminate, inserendo la stessa in una realtà spettacolare che non vuole rimandare a una autenticità ma bensì a una riflessione sulle soggettive con cui possiamo entrare in relazione in quanto spettatori e in quanto sono un modello globale e geopolitica che non può guardare al pezzetto ma deve guardare la tutto perché solo così si possono comprendere le posizioni dei soggetti e le asimmetrie politiche del potere in atto.
[La frammentazione narrativa risponde alla necessità di indagare la specificità ma anche di mostrare la rete delle esperienze, di costruire un percorso all’interno dei racconti e di mostrarne però il gesto di costruzione posizionato e specifico. Il film esibisce le asimmetrie del potere e i rapporti di forza fra soggetti appartenenti a classi sociali e posizioni culturali diverse.]
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Le scelte narrative sono pienamente integrate con le scelte stilistico-formali, come sottolineato dal direttore della fotografia Rodrigo Prieto (35mm per Mexico/US, 16mm per Marocco –
con eccezione di riprese notturne, anamorfico in Giappone; tutto amalgamato
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Le linee temporali sono sfalsate in funzione di una modalità melodrammatica in cui il vertice del racconto non è dato dalla comprensione della successione dei fatti quanto dai momenti di intensità e pathos, che giungono per tutti in successione.
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