Il “carissimo zio Fabrizio,” dunque, era informato che il suo “affezionatissimo e devotissimo nipote” era da tre mesi preda del più violento amore e che ne “i rischi della guerra” (leggi: passeggiate nel parco di Casetta) ne “le molte attrattive di una grande città” (leggi: i vezzi della ballerina Schwarzwald) avevano sia pure un momento potuto allontanare dalla sua mente e dal suo cuore l’immagine della 69 signorina Angelica Sedàra (qui una lunga processione di aggettivi volti ad esaltare a bellezza, la grazia, la virtù, l’intelletto dell’oggetto amato); attraverso nitidi ghirigori d’inchiostro e di sentimenti si diceva poi come il Tancredi stesso, cosciente della propria indegnità, avesse cercato di soffocare il proprio ardore (“lunghe ma vane sono state le ore durante le quali o fra il chiasso di Napoli o fra l’austerità dei miei compagni d’arme ho cercato di reprimere i miei sentimenti”). Adesso però l’amore aveva superato il ritegno, ed egli veniva a pregare l’amatissimo zio di volere a suo nome richiedere la mano della signorina Angelica al “suo stimabilissimo padre.” “Tu sai, zio, che io non posso offrire alla fanciulla amata null’altro all’infuori del mio amore, del mio nome e della mia spada.” Dopo questa frase a proposito della quale occorre non dimenticare che allora ci si trovava in pieno meriggio romantico, Tancredi si abbandonava a lunghe considerazioni sulla opportunità, anzi sulla necessità che unioni tra famiglie come quella dei Falconeri e quella dei Sedàra (una volta si spingeva fino a scrivere arditamente “casa Sedàra”) venissero incoraggiate per l’apporto di sangue nuovo che esse recavano ai vecchi casati, e per l’azione di livellamento , dei ceti che era uno degli scopi dell’attuale movimento politico, in Italia. Questa fu la sola parte della lettera che don Fabrizio eleggesse con piacere, non soltanto perché essa confermava le sue previsioni e gli conferiva l’alloro di profeta, ma anche perché lo stile, riboccante di sottintesa ironia, gli evocava magicamente la figura del nipote, la nasalità beffarda della voce vivace, gli occhi sprizzanti malizia azzurrina, i ghignetti cortesi. Quando poi Don Fabrizio si avvide che questo squarcio giacobino era esattamente racchiuso in un foglio cosicché, volendo, si poteva far leggere la lettera pur sottraendone il capitoletto rivoluzionario, la sua ammirazione per il tatto di Tancredi raggiunse lo zenith. Dopo aver narrato brevemente le più recenti vicende guerresche ed espresso la convinzione che entro un anno si sarebbe raggiunta Roma “predestinata capitale augusta dell’Italia nuova,” si ringraziava per le cure e l’affetto ricevuti in passato e
si conchiudeva scusandosi per l’ardire avuto nell’affidare a lui l’incarico “dal quale dipende la mia felicità futura.” Poi si salutava (lui solo).