Per Schopenhauer la vita è un continuo alternarsi di dolore e noia: il dolore è provocato dal bisogno, dal desiderio non appagato.
Quando però questo desiderio trova il suo appagamento, subentra la noia, e questa situazione si ripete all'infinito, come in un circolo vizioso. L'amore, a primo impatto, potrebbe sembrare un'altra via di fuga dal dolore, ma per Schopenhauer non è così, anzi, è visto dal filosofo come un'estrema forma di dolore.
Schopenhauer distingue tuttavia l'amore in due tipi: l'eros e l'agape, la pietà, la carità; quest'ultima è una forma positiva d'amore.
L'eros, invece, è un istinto distruttivo, che non porta nulla di buono. Esso è atto alla perpetuazione della specie, ed esiste solo sottoforma di impulso sessuale
L'amore è visto come un semplice bisogno fisiologico e un atto procreativo tanto che, dopo il momentaneo godimento successivo all'atto sessuale, l'uomo non prova appagamento, perché non ha fatto nulla per sé, ma ha semplicemente obbedito alla Natura, di cui è lo «zimbello», che gli aveva affidato la missione di procreazione.
Dunque Schopenhauer, privando ormai l'amore di ogni aspetto romantico e di ogni idealizzazione, afferma che esso è costituito da «due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano, una terza infelicità che si prepara», dal momento che, generando una nuova vita, la si destina inevitabilmente a quella sofferenza che è comune a tutti gli uomini.
La carità, o agape, è invece vista come il vero amore, l'amore disinteressato per il prossimo, la compassione. Infatti, per il filosofo, l'uomo può superare l'egoismo che lo caratterizza se riesce a compatire gli altri.
Compatire significa “soffrire con”, dunque provare le stesse sofferenze di chi gli sta accanto, immedesimarsi fino a far proprio anche il dolore altrui. Solo in questo modo l'uomo riesce realmente a comprendere che il dolore è di tutti, che tutta la vita è un soffrire.