La concezione di natura benigna e provvidenziale entra però in crisi: la natura infatti mira alla conservazione della specie e quindi può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza. Il male rientra quindi nel piano stesso della natura. È la natura che ha messo nell’uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. Da questo momento Leopardi non concepisce più la natura come madre amorosa, ma come meccanismo cieco, crudele, in cui la sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale, è una concezione non più finalistica, ma meccanistica e materialistica. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso ma solo della natura, l’uomo non è che vittima innocente della sua crudeltà. Se causa dell’infelicità è la natura stessa, tutti gli uomini sono infelici. Al pessimismo storico della prima fase subentra così un pessimismo cosmico: l’infelicità è legata ad una condizione immutabile di natura. Ne deriva, l’abbandono della poesia civile e del titanismo: se l’infelicità è un dato di natura, vane sono la protesta e la lotta. Subentra infatti in Leopardi un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e rassegnato. Suo ideale non è più l’eroe antico, ma il saggio antico.